La primavera, in Sicilia, non aspetta l’equinozio. Le piante lo sanno, si guardano in giro, decidono che è ora di finirla coi colori dell’inverno e offrono lo spettacolo dei fiori più delicati.
Comincia il prugno, poi il mandorlo, il pesco, il ciliegio, il pero. Tutti fiori molto simili, con varie sfumature dal bianco al rosa intenso, con tutte le sfumature in mezzo. A distinguere un albero dall’altro il portamento, dal quasi cespuglio dei prugni ai rami lunghi e alti del ciliegio.
Il fiore del mandorlo ha cinque petali, un gruppo di pistilli di colore giallo. I petali posti come ad abbracciare e accogliere l’ape che, attirata dal colore giallo del polline, provvederà a consolidare il magnifico accordo fra mondo animale e mondo vegetale, a far capire come il creato ha unica sorgente, nello spirito di San Francesco.
È quando cominciano a fruttificare che iniziava la mia missione, cominciava l’appostamento: si sa che i contadini lavorano nei campi la mattina presto, così dovevo attendere la fine della giornata di lavoro, verso le cinque del pomeriggio. A quell’ora il rischio di essere scoperti era molto basso, bastava operare lontano dalla loro casa. Ogni frutto aveva il suo momento, ogni stato di maturazione aveva i suoi sapori. E tutti i ladri come me, che “assaggiavano” la frutta colta sull’albero, sanno bene che il sapore è differente dalla frutta raccolta da ore, anche da giorni prima.
L’albero del mandorlo non è adatto all’arrampicata. Corteccia ruvida, rami troppo esili per sorreggere il peso. Così ci si deve accontentare dei rami rivolti verso il basso.
E non solo, la mandorla ha tre momenti: quando è appena formata, il mallo non ha soluzione di continuità col frutto e il guscio ancora non è formato. Quando è appena diventata mandorla, con un guscio già duro ma il seme ancora tenerissimo. Quando è pronta per essere colta.
Il primo stadio restituisce un frutto da mangiare intero, con tutto il mallo. Un sapore leggermente acidulo, ricorda il viticcio delle viti, ma ovviamente determina il raccolto finale: “assaggio-furto” molto pericoloso, se il contadino ti scopre sono guai …
Al secondo si deve già rompere un guscio, ma il seme è tenerissimo, pieno di olio di mandorla, dolcissimo e piacevolissimo. Il rischio è di essere presi a fucilate, perché ormai si sa bene dove manca il frutto sul ramo, il danno è facilmente rilevabile.
E infine, la mandorla, cibo principe della cucina siciliana. Il posto da re è occupato, a mio avviso, dal quasi formaggio ricotta, utilizzabile in tutti i piatti dai salti ai dolci, allo stato puro come formaggio anche se non lo è. La ricotta, come l’olio, sta bene dovunque.
Ma la mandorla compare nella maggior parte dei dolci siciliani e quando arrivavano i sacchi di mandorle, ci si metteva in fila, sul tavolo di marmo, con un batticarne tutti a rompere i gusci per estrarne i semi. Le bucce legnose non si buttavano via, come ora nell’indifferenziata (o nell’umido? Boh?). Si usavano nel camino, nelle stufe, nel focolare della cucina a legna. E la cenere poi serviva per lavare i piatti. O anche per chiarificare la mostarda…
A quel punto si ha a disposizione la mandorla con la sua pellicina marrone. Si prepara dell’acqua bollente e, fuori dal fuoco, si aggiungono le mandorle. Dopo qualche minuto la pellicina si toglie rapidamente e si ottengono le mandorle pelate. Oggi al supermercato si trovano anche le mandorle spellate. Ma non le consiglio: perdono parte della loro umidità e possono anche dare un po’ di rancido.
Le mandorle così pelate si tritano grossolanamente (con la mezzaluna? O con un apparecchietto elettrico tritatutto? A scelta). Quindi si mettono a mollo in acqua (di buon sapore, possibilmente non da rubinetto con cloro aggiunto!) con un po’ di zucchero, non molto. Dopo una intera notte in frigorifero, si tolgono le mandorle che lasceranno nel contenitore il primo latte di mandorle. Le mandorle si mettono in un canovaccio bianco pulitissimo e si strizzano con tutte le forze, facendo in modo che ogni parte di liquido contenuto nelle mandorle finiscano col latte. Garantisco che il latte di mandorle così preparato è di gran lunga più buono di quelli, per altro anche molto buoni, che si trovano dappertutto.
Ma, così come si recuperavano le parti legnose della mandorla, anche i frammenti “spremuti” non si buttano via.
Si possono fare molte preparazioni, dalle più semplici fino alle più complesse. Ne suggerisco una assai semplice, che ha anche il pregio di unire un altro simbolo del meridione d’Italia: il limone.
Di limoni esistono tante varietà, dalla “peretta” che si vende a Catania sulle bancarelle, limone pieno di scorza bianca e “dolce”. Fino al verdello, il limone estivo, con un colore verde brillante che fa invidia ai pistacchi. E non si può dimenticare il limone di Sorrento, magnifico per utilizzare la sua scorza per il liquore di limone.
Si mescolano i frammenti di mandorla con un peso di circa la metà in zucchero (o anche meno, se si vogliono poco dolci). Si aggiunge la scorza grattugiata e il succo di un limone. Si formano dei mucchietti della dimensione di una piccola noce, si passano in abbondante zucchero a velo e si infornano. Santa invenzione: la carta-forno, serve a evitare di pulire incrostazioni sulle teglie. Una decina di minuti in forno statico a 180 gradi (la temperatura standard per tutti, o quasi, i dolci) e sono pronti. Del resto c’è poco da cuocere. Volendo si può aggiungere un bianco d’uovo semi-montato. In questo caso sarebbe meglio adoperare i bianchi d’uovo pastorizzati (si trovano al supermercato), oppure essere sicuri della salute della gallina.
©Adelfo Carcaci
Foto ©Giorgio De Simone