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sabato 12 Luglio 2025

La regina dei dolci, la Cassata, raccontata da Adelfo Càrcaci

Si andava in campagna il giorno prima. Appena arrivati, subito si scendeva di corsa dall’auto e, mentre papà operava sul generatore per avere la corrente elettrica in casa, su per le scale ripide per arrivare per primo a prendere possesso del letto in alto, letto a castello.

Da lì si dominava la stanza e poco importava che la scala per salire era stata inchiodata in verticale ed era molto scomoda. La mattina dopo si faceva una rapida colazione nella stanza del pistacchio aggressivo. Si, perché papà aveva scelto i colori per rinfrescare tutte le stanze, ma l’imbianchino, arso da una febbre artistica, aveva interpretato le tonalità.
Così c’era anche la stanza rosa violento delle bambole, la stanza caffellatte della depressione, ecc.

La colazione era semplice: una grande tazza di latte e un grande “biscotto” di campagna.
Il latte era appena munto, con sopra uno strato di panna e quel sapore… pur avendolo ben chiaro in mente, mai più l’ho ritrovato.
Oggi il latte industriale subisce ogni tipo di maltrattamento al fine di renderlo igienico e sicuro. Chissà come abbia fatto l’umanità per millenni a bere quel liquido pericolosissimo che era il latte di una volta.
E il “biscotto” era giallo, del colore delle uova che in abbondanza erano state usate per prepararlo.

Poi si andava ai casolari dei pascoli. Qui i pastori, in una camera dalle pareti annerite da secoli di fumo di legna, avevano approntato un pentolone dove il latte di pecora appena munto (con le mani dei pastori senza guanti…) era messo a cuocere assieme a delle foglie e rami di fico, per cagliare.

Oggi il caglio arriva in sacchi dalla Cina, ma è più “igienico” delle foglie raccolte a mani nude in campagna !

E in mezzo al belare delle pecore, al vocìo delle persone, all’abbaiare festoso dei cani, la ricotta veniva raccolta e offerta su dei fogli di carta paglia, quella che oggi è proibita perché antigienica.

Si mangiava la ricotta calda, grondante di siero, con un sapore di fumo e latte incredibile.
Per dissetarsi si usava un liquido pericolosissimo: l’acqua che scorreva nelle saie da irrigazione fatte con coppi di terracotta (quelli delle tegole), in cui si immergeva una foglia di alloro piegata a formare una piccola fontana di acqua freddissima, come usciva dalla sorgente.

Alla stessa saia si abbeveravano i cani, le pecore, gli asini, tutte le creature che hanno sete.
Oggi l’acqua della sorgente è un fluido vettore di ogni genere di malattia, tanto che viene additivata di disinfettanti, trasferita in tubazioni di ferro, ma è igienica.
Anche qui, possiamo dire che siamo sopravvissuti alle armi di distruzione di massa che la natura offre sadicamente all’uomo.

Quando si tornava dalla campagna il portabagagli dell’auto era zeppo di ogni ben di Dio: dalle fascelle di ricotta, alle forme di tuma e poi gli agnelli semplicemente divisi in due ma senza togliere le interiora, che si potevano preparare in tanti modi.

Tornati a casa, cominciavano ricette a base di ricotta, di tuma, di agnello pertanto, per un paio di settimane, si doveva inventare ogni giorno una ricetta differente, non si doveva soffrire di melanconia alimentare.

Molto tempo fa, conobbi una ragazza di Milano che tutte le sere mangiava pasta al burro, fettina saltata in padella e insalatina. Mai cambiava. Per un paio di giorni le feci capire che anche a tavola si può sorridere.

Il mio papà voleva che ogni domenica ci fosse un dolce, sempre diverso e sicuramente, uno dei primi, era proprio la cassata, forse il dolce più sontuoso della cucina Siciliana.

La preparazione comincia almeno tre giorni prima, mettendo la ricotta freschissima a scolare il siero per almeno una notte.
Uno scolapasta capiente, per una cassata che abbia le dimensioni minime, almeno due chili, poi tanto si riduce anche del 30%. Poi si mescola la ricotta al dolcificante.
Il più semplice è lo zucchero, ma va benissimo il miele, io uso il miele di agrumi, quanto? Poco, la ricotta deve essere dolce ma si deve sentire il sapore della ricotta, non dello zucchero.

Per mescolare bisogna essere dolci: usare un cucchiaio, mai il frullatore, va mantenuta la grana della ricotta.

Mai aggiungere panna, ci sono degli incoscienti che lo fanno: la ricotta a crema è per altri dolci, non per la cassata o per i cannoli.

Attenzione a non regolarsi sui sapori delle pasticcerie: loro usano lo zucchero come conservante, quindi sempre troppo.

A Catania la ricotta (di pecora, tassativamente) è in genere leggermente salata. Secondo me accentua il sapore e ci sta bene, non è rara l’aggiunta di sale nei dolci.
Se poi pensiamo che i Romani aggiungevano il garum, che è una colatura di alici speziata, in tutte le pietanze, anche sui dolci… bè la civiltà romana è nel nostro DNA, perciò… ci sta bene un pizzico di sale.

Con tranquillità, senza fretta, si prepara il pan di spagna.

Io uso 9 uova grandi, acquistate alla “fera” di Catania, dove le uova grandi lo sono davvero. Quelle del supermercato hanno un’aria strana, sono un po’ tristi.
Certo non saranno mai come quelle antiigieniche appena fatte nel pollaio di famiglia: quando andavo a prenderne uno, due piccoli buchi da una parte e dall’altra e poi bevevo l’uovo ancora caldo del posteriore della gallina, che mi guardava un po’ scocciata, mormorando qualcosa che somigliava al coccodè ma sicuramente era un insulto in “pollesco”.

Comincio montando a neve fermissima le chiare d’uovo.

Attenzione: solo chiare di uova a temperatura ambiente (le uova non si conservano in frigorifero !), se cade per errore una goccia di tuorlo, rimuoverlo prima di montarle.
Le chiare sono molto permalose e non vogliono alcun corpo estraneo, sennò non montano.
E non montano se non sono fresche, nel senso di “poco dopo la deposizione”.

In un altro contenitore si montano i tuorli con lo zucchero, la vaniglia e la buccia di limone grattugiato.
Io uso non più di 200 gr di zucchero, a volte anche meno: il pan di spagna sarà poi bagnato con lo sciroppo leggero di mandarino.
I tuorli, al contrario delle chiare, sono molto più socievoli, così si possono montare assieme allo zucchero e agli aromi.
Quando cambiano di colore e diventano quasi una spuma leggera, resistendo alla voglia di mangiarli così (che sono buonissimi, magari con un pochino di marsala secco…), si uniscono alle chiare montate.
Movimenti dal basso a girare sopra le chiare, io uso una leccapentole (anche detta “marisa”). Dopo un po’ (non lavorate troppo le chiare, devono mantenere la montatura, le bollicine d’aria sono quelle che evitano l’impiego del lievito, che darebbe una nota amara) si aggiunge con un setaccio, poco a volta, la farina 00, duecento grammi.
Quando tutto è finito, si versa l’impasto, bellissimo a vedersi, buono da assaggiare, poco zuccherato in modo che si senta il sapore dell’uovo fresco (il sapore dell’uovo non fresco è orripilante…), nella forma da forno.
Io ne uso una con il fondo staccabile, ricoperto di carta forno (santa invenzione).
Poi nel forno, 180 gradi circa (il termostato dei forni non è mai granché preciso). La cottura si controlla con uno stecchino lungo, che non esca bagnato d’impasto.
Una delle regole di chi cucina è di conoscere il proprio forno, quindi non do altre indicazioni in merito.

Prima di procedere all’assemblaggio, preparare un paio di altre cose.

La bagna del pan di spagna. Io uso il succo del mandarino, a cui aggiungo la buccia grattugiata dei mandarini e un po’ di zucchero. Quanto? A occhio e a sapore: deve essere dolce ma non coprire il sapore del mandarino. Il tutto scaldato in un pentolino solo per fare in modo di sciogliere lo zucchero (o il miele, volendo).
Ci vorrà un bel po’ di bagna quindi almeno una decina di mandarini. Il vero sciroppo invece (che noi non usiamo qui, ma viene usato per preparare bevande rinfrescanti, per esempio il catanesissimo “mandarino al limone”) prevede la riduzione del succo alla metà del volume, e lo zucchero diventa predominante.

Una forma: l’ideale è una forma troncoconica, ma non necessariamente.

Al solito non pensiamo alle forme della pasticceria: quelle si usano per poter essere veloci nella preparazione, in un’ora devono preparare decine e decine di dolci per la vorace clientela.
Quando facciamo noi la cassata, ci mettiamo il tempo che ci vuole: è un dolce importante, non si può liquidare in pochi minuti.

Si fodera la forma con pellicola trasparente, servirà per sformarla facilmente.
Poi si comincia con la ricotta, sarà lo strato superficiale quindi si adagia sopra un disco di pan di spagna, di diametro minore rispetto alla forma.
Gli strati di pan di spagna non devono essere visibili a cassata pronta. Io preferisco ricavare i dischi dall’interno, senza la parte esterna colorata dall’esposizione al calore (che caramellizza lo zucchero e quindi assume un colore scuro), ma è una scelta mia.

Tra il primo e secondo disco metto delle gocce di cioccolato, sarà l’unico ingrediente interno della torta.
Non dimenticare di bagnare abbondantemente il disco di pan di spagna. Due dischi interni e il terzo a chiudere il fondo. Poi altro foglio di pellicola, un piatto che rimanga a contatto con tutta la superficie e dei pesi per compattare bene.

In frigo per almeno una notte.

Infine, si sforma su un piatto piano. Non usate piatti scanalati, quando si taglia una fetta deve essere agevole passare sotto una spatola per prelevare la fetta e depositarla sul piatto da servire con tutta la dignità della fetta. Mi fa orrore la fetta coricata di lato, mi sembra di offendere la composizione a strati verticali.

La guarnizione finale.

I dolci di origine araba hanno sempre decorazioni che devono dare un senso di “lusso”. E la frutta candita era il lusso della frutta portata nel deserto, priva di acqua, sostituita dallo zucchero che al contempo era nutriente e conservava la frutta.
E pensavano anche avesse poteri medicinali. Nei dolci più poveri usavano la frutta secca, i datteri (da cui si ricava anche un delizioso sciroppo), l’uva passa, le albicocche essiccate, ecc.

Dopo aver livellato la superficie, si mette sopra la frutta candita.
Attenzione, le pasticcerie mettono sopra a tutto una glassa di zucchero, che rende stucchevole tutta la cassata ma conserva la freschezza della ricotta.
Ma siccome noi facciamo la torta per mangiarle subito dopo, la glassa non ci serve. Al solito non fate conto della memoria del dolce di pasticceria.
E lo stesso non usate la frutta candita come le pasticcerie: loro devono preparare decine di torte in poco tempo, non possono perderne per usare al meglio la frutta, difatti si vedono sempre guarnizioni con grandi pezzi immangiabili.
La guarnizione deve dare un tocco di sapore in più alla cassata, mica appesantirla.

Allora, procuriamoci la frutta candita intera e poi improvvisiamo: ogni frutto suggerisce diversi modi di essere tagliato.

Immancabile, secondo me, deve essere il mandarino. Tagliato a spicchi, ovviamente.
In genere tutta la frutta candita sarà a pezzi piccoli, perché la cassata si mangia con la forchetta, non si deve usare il coltello.
Poi ognuno decide. Un’ultima cosa: i pistacchi.
Oggi sono di gran moda, tutti si affannano a mettere nelle etichette l’ingrediente pistacchio. E troppe volte si trova la dicitura “con pistacchi di Bronte”. Perché se crescono sulle sabbie laviche, ricche di ferro, hanno un sapore più intenso. Attenzione che dire “con pistacchi di Bronte” non è come dire “solo pistacchi di Bronte”: ne mettono due (plurale) in dieci chili di pistacchio turco e sono a posto.
Io uso solo pistacchi crudi. Quindi niente pistacchio tostato. Se è crudo la probabilità che sia locale è molto alta, non foss’altro per motivi di conservazione.
E lo spello, anche perché la pellicina sui pistacchi, ancorché essere di un bel colore rossastro, è amara. E il pistacchio crudo e nudo (carino il gioco di parole) è di un bel colore verde brillante.

Di seguito alcune decorazioni, non le faccio mai uguali. L’imperfezione è segno di preparazione per uso personale, solo per amici. Non le devo vendere, non deve essere necessariamente riproducibile. Non deve copiare un format prefissato.

©Adelfo Càrcaci

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