Verso la fine del mese di ottobre, quando cadono le prime piogge e l’aria si fa più leggera, a Palermo da antico tempo si organizzava “la Fiera dei Morti” e, puntualmente, la zona dove veniva allestita era quella del vetusto rione dell’Olivella nell’odierna Piazza Olivella !

E’ tradizione palermitana secondo la quale, per la festa dei morti, i genitori regalavano ai bambini dolci e giocattoli, dicendo loro che erano stati portati in dono dalle anime dei parenti defunti.
Di solito per i maschietti erano armi: pistole a tamburo con tanto di fodero o fucili con il tappo che era attaccato tramite un laccio, ispirati a modelli western; c’erano pure costumi da indiani, quelli d’America con archi e frecce. Queste ultime avevano una ventosa che non si attaccava mai, se non si inumidiva con una “liccata” della lingua.
Per le bimbe: bambole ricciolute, passeggini, assi da stiro, fornelli e pentolame. I più facoltosi regalavano tricicli e biciclette fiammanti.
Al mattino miracolo! Bisognava trovare il regalo nascosto in un punto insolito della casa, nella notte tra l’1 e il 2 novembre.
La sera prima si nascondeva la grattugia perché si pensava che i defunti, a chi si fosse comportato male, sarebbero andati a grattare i piedi !!!

Al mattino si impone la tradizionale “muffulietta”, un tipo particolare di pane (spugnoso e morbido) con poca mollica che si “conza” (si prepara) con OLIO, ACCIUGA, ORIGANO, SALE E PEPE con la variante del POMODORO fresco.
E’ da tener presente che nella provincia di Palermo molti anni addietro non esisteva ancora l’usanza di scambiarsi doni in occasioni delle feste di Natale, ma proprio per i “morti” ma a Palermo la tradizione ancora oggi si è mantenuta più viva che in altri luoghi della Sicilia.
Anticamente il due novembre, giorno della commemorazione dei defunti, quando ancora non erano in uso i cimiteri, i palermitani andavano nelle varie cripte della città per rivisitare i propri defunti: lavarli, pettinarli, rivestirli ed esporli per l’anno successivo. Una tale usanza è ancora visibile in quanto la grande cripta dei Cappuccini che ospita 8000 corpi imbalsamati è tuttora visitata nel giorno della commemorazione dei defunti.
L’ultima Fiera dei Morti a Palermo si svolse presso il rione S. Pietro, alla Cala ma, originariamente, veniva svolto all’ Olivella, subito dopo Piazza Massimo: variopinte bancarelle offrono ai vari visitatori nonché ai genitori l’opportunità di potere acquistare giocattoli, vestiario, dolciumi di ogni genere per preparare il tradizionale “Cannistru”.
Organizzata con delle variopinte bancarelle che richiamavano gli antichi suk arabi, offrivano ai vari piccoli visitatori, nonché ai genitori, l’opportunità di potere acquistare giocattoli, vestiario e dolciumi per prepararsi al giorno dei morti.
Questa tradizione palermitana (Palermo è l’unica città d’Italia dove si festeggiano i defunti…), la festa ha un origine e un significato che si collegano certamente ad antichi culti pagani e al banchetto funebre, un tempo comune a tutti i popoli indo-europei, di cui si ha ancora un ricordo nel “consulu siciliano” (era il pranzo che i vicini di casa offrivano, dopo che il defunto era stato tumulato, ai parenti che avevano trascorso).
I genitori nel regalare ai bambini dolci e giocattoli, riferiscono a loro che sono stati portati in dono dalle anime dei parenti defunti, siano essi nonni, zii, parenti prossimi o lontani, ai più piccoli del nucleo familiare.
Il concetto di ciò è doppio: offerta alimentare alle anime dei defunti e donazione simbolica, nei dolci a forma umana, come assicurazione alle anime dei defunti in maniera che, cibandosi di essi, è come se ci si cibasse insieme ai trapassati stessi.

All’occorrenza per ricordare tutto ciò era consuetudine atavica di approntare il tradizionale “Cannistru”, un cesto colmo di dolciumi di ogni genere ed in particolare i decantati “frutti di martorana” che ormai tutti ci invidiano e che sono diventati famosi in tutto il mondo.
Il cesto, da regalare ai bambini piccoli e alla famiglia, in particolare per festeggiare l’ingresso di una nuova stagione, era un dono che il ragazzo omaggiava anche alla fidanzata come un augurio di continuità del rapporto.
I giovanotti più grandicelli per ottenere più regali si erano inventati una preghiera propiziatoria:
“Animi santi, animi santi,
Io sugnu unu e vuiautri síti tanti:
Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai
Cosi di morti mittitimìnni assai.”
La frase veniva esposta in casa, magari in un luogo dove potesse essere osservata anche da parenti ed amici e dove venivano posati i “cannistri” che, per alcuni giorni, era consuetudine non toccare. Infatti solo nei giorni successivi il 2 novembre e comunque prima dell’arrivo del Natale si potevano consumare le prelibatezze che conteneva.
Anticamente si era convinti che la sua presenza desse un senso d’augurio e benessere per l’avvicinarsi dell’inverno.

Più delle volte per la sua preparazione si ci impiegano diversi giorni, un piccolo viaggio iniziava dalla scelta del cesto che diveniva il contenitore dove doveva essere allocato e allestito il contenuto.
La ricerca era proprio tra le bancarelle che nascondevano questi venditori ambulanti, alcuni venuti dalla provincia, portando diversi cesti in vimini o materiali simili che avevano realizzato artigianalmente durante l’anno, attendendo proprio questo periodo per poterli vendere.
I cesti erano di varie misure e dimensioni, anche quella del cestaio era e ancora è un’attività legata alla tradizione popolare, ma purtroppo, ormai da tempo, si preferisce risparmiare comprando quelli industriali provenienti da chissà dove !
Questo era l’indispensabile accessorio, di tutte le misure e forme, di materiali diversi, realizzati con semplice giunco, o con la “disa”, le foglie di Ampelodesma o con la “giummara”, ovvero le foglie di Palma nana, per arrivare alla triste plastica.
Tradizionalmente la forma classica è quella rotonda e di una certa ampiezza e soprattutto di materiale naturale, perché a chi l’osserva non deve apparire ridicolo, perché ricordiamoci che per i palermitani l’apparenza è un fattore fondamentale.
Selezionata la dimensione del cesto, bisogna riempirlo:
la prima cosa che viene immessa al centro della sua capienza è la “pupaccena” celebre figura antropomorfica, cioè a forma umana, chiamata comunemente “i pupi ri zuccaru”: una statuetta cava fatta di zucchero indurita e dipinta con colori leggeri con figure tradizionali (Paladini, ballerini ed altri personaggi del mondo infantile).
Tuttavia da tempo a questa parte si rammentano nuove forme come quelle di animale: cavalli, cagnolini, galli e tanti altri che, spesso richiamano i momenti attuali come la statuetta a forma di zucca che richiama la festa di “Halloween”, tanto per stare al passo con i tempi di altri culti.
La figura più popolare è un baldanzoso pupo di zucchero che raffigura il classico paladino, a cavallo e non, figura eroica dei mitici paladini del teatro popolare ispirati alla Chanson de Roland (o Canzone di Rolando o Orlando), un poema scritto nella seconda metà dell’XI secolo, appartenente al ciclo carolingio. Questa usanza nella Sicilia orientale è scomparsa del tutto, in particolare appunto la produzione di questo manufatto di cui vanno fieri i pasticcieri palermitani che riescono a mantenere la tradizione.
Quindi, al centro del cesto, adornato con carta colorata, viene sistemato il pupo di zucchero che sovrasta il tutto con la sua imponenza silenziosa.
Attorniata ad essa viene disteso, come riempimento, un letto di “frutta secca”, primizie di stagione come: noci, mandorle, nocciole, castagne, fichi secchi e datteri, melograni, che capeggiano in bella vista.
Non deve assolutamente mancare “ù scacciu” un miscuglio di differente frutta secca composta da “calia” o ceci tostati, “simienza” ovvero i semi di zucca rossa, con le sue varianti: con sale e senza, noccioline americane (arachidi), nocciole tostate (“nucciddi atturrati”), pistacchi secchi e salati, castagne secche (cruzziteddi), carrube secche, “favi atturrati” (fave tostate).

Ad adornare per continuità visiva, si ci mette dentro, fra le tante cose, una piccola bacca di colore verde “a murtidda”, nome dialettale riferita alla bacca del Mirto nero (Myrtus communis) e, uno dei sette componenti che debbono essere presenti nel “cannistru”.
Questa pianta nell’antichità era consacrata a Venere per i Romani, ritenuta anche un afrodisiaco, ma la presenza nel cesto vuole rappresentare una carica in più e un amore spirituale verso i cari estinti.

Sopra la frutta vanno posti i biscotti tipici che ci tramandarono le monache dei monasteri: taralli, quaresimali, reginelle, amaretti e quelli di “pasta di miele” ricoperti di glassa bianca comunemente detti e conosciuti come “ossa ri muortu” o italianizzato “morticini” perché per il loro aspetto vogliono rappresentare le ossia dei morti, che si trovano soprattutto nei panifici.

La tradizione vuole che la notte tra il primo e il due novembre, si appoggino sul davanzale o sulla tavola o messi in evidenza sopra “ù cannistru” affinché i defunti passando se ne cibano.
Ma principalmente deve essere “ù mistu” (u ruci mmistu): il dolce misto fatto da rimasugli di biscotti impastati una seconda volta, bianco per la velatura di zucchero e marrone per la presenza di cacao: i Tetù o taitù sono dei biscotti tipici palermitani, è un dolcetto speciale per alcune ricorrenze, è il tipico biscotto che caratterizza ancora oggi il giorno dei defunti.
Una curiosità tramandata dai nonni vuole che a Palermo si chiamano “tetù e teio”, che tradotto vuol dire “tieni tu e tini io” per esprimere la golosità di questi biscotti, immaginando dei bambini davanti ad un vassoio che si dicono a vicenda: tieni, mangiane uno tu ed uno io… fino ad esaurimento.
Per renderlo ancora più scintillante è sufficiente aggiungere dei cioccolatini e caramelle con carta stagnola di differente colorazione, confetti e filamenti di carta di diversi colori (adoperati dai fruttivendoli per valorizzare la frutta esposta), che debbono mettere in risalto la “frutta di martorana”.
E’ l’imitazione della frutta di stagione e non realizzata con farina di mandorle e zucchero, successivamente dipinta. Sono spesso vere opere d’arte per la straordinaria somiglianza a quella vera: nespole, castagne, pesche, fichidindia, banane, albicocche, mele, fragole, cachi, ciliegie, arance e tanti altri che riempiono il cesto.
Originariamente questa “frutta” non era collegata alla celebrazione dei defunti, ma nacque a a Palermo nel monastero della Martorana, fantasiosa opera delle suore benedettine, che vollero regalare qualcosa di particolare al vescovo che andò a visitare il loro monastero in periodo invernale, sorprendendo l’ospite con dei frutti fuori stagione.
Quando venne accolto a Palermo, nel 1308, Papa Clemente V gli fu omaggiata la frutta di martorana da quel momento soprannominata “reale” perché giustamente considerata la regina della pasticceria isolana e palermitana.
Successivamente si diffuse anche nel resto della Sicilia, varcando lo stretto, oggi è esportata in tutto il resto del mondo grazie agli anche agli emigrati siciliani che annualmente se la facevano mandare ovunque nel mondo.
Legata al simbolismo della trasgressione, è provato che gli zuccheri aiutano a superare i momenti bui e rallegrano il cuore: ecco perché in definitiva si omaggiano questi cesti nel giorno dei trapassati.
Nel tempo, questa tradizionale strenna di dolci si è andata via via estinguendo e sostituiti, oggi, da altri regali, trasformando un culto che affondava le sue radici nel mondo pagano in una vera e propria festa commerciale.
Nonostante tutto però, in alcune famiglie, il rito del “Cannistro” è ancora vivo e in alcune pasticcerie storiche palermitane, soprattutto site nei quartieri storici, si possono assaggiare tutti i componenti del prezioso “Cannistro”.






