Palermo: una storia straordinaria di culture e civiltà

Viene qui presentata, tratta da una pubblicazione curata dalla ex Provincia Regionale di Palermo (*), una breve introduzione a quella che potrebbe essere la storia dell’intero mondo occidentale e orientale messi insieme… proprio perché Palermo e la Sicilia rappresentano da sempre un connubio di culture, popoli e civiltà così diverse tra loro ma unite da un’unica meta: conquistare una città e una regione preziosa e lasciarne traccia ai posteri ! Questa è Palermo, oggi una città alla ricerca di una nuova identità… ma ricca di un passato unico !

Chissà cosa voleva tramandarci Ibn Hawqal quando raccontò Palermo come il luogo che ospitò il corpo di Aristotele.

Perché mai questa città era descrivibile al mondo medievale come sede simbolica di un massimo pensiero antico occidentale? Ovvero, del più grande alter ego di Platone? Forse, si tratta di una significante bugia di un viaggiatore arabo del 972, alla quale potrebbero legarsi significati inconcepibili, per noi del XXI secolo.

Dire di Palermo significa raccontare millenni di storia siciliana, italiana, europea o, ancora meglio mediterranea.

Si potrebbero imbastire storie di Sicani, Greci, Cartaginesi, Siriani, Romani, Bizantini, Vandali d’Africa e Persiani, il suo racconto antico, insomma, manderebbe al diavolo ogni semplice latitudine a senso unico.

Basta già riflettere sui significati contenuti dal suo etimo, per capire il desiderio delle civiltà antiche che l’hanno voluta, perché di fatto “tutto porto” in greco si dice Panormos. E arrivando dal mare agli occhi dei Punici, otto secoli prima di Cristo, doveva apparire come una specie di raro e splendido “fiordo meridionale”, a metà tra Cadice e Gerusalemme, scavato da due fiumi paralleli nel percorso ma diversi nel carattere; i Punici decisero così di costruire la loro Ziz (fiore) assieme ai Sicani.

Kemonia era il fiume del mal tempo, piccolo e torrentizio legava la sua esistenza alle stagioni, mentre (con un nome che parla da solo) Papireto era il corso d’acqua più grande, forse era navigabile risalendo per un chilometro l’entroterra fino ai piedi di un capo roccioso, tutt’ora spazialmente individuabile nei nomi e nell’orografia della medievale chiesa di Sant’Anna di Porto Salvo nel quartiere del Capo.

Ma, a meno di scavare, di queste antichità palermitane punico-romane rimane quasi nulla, eccetto i reperti del Museo Archeologico Salinas, la Necropoli di C.so Calatafimi, gli Ipogei di Casa Professa, e le Catacombe di Porta d’Ossuna, spazi parlanti di un’inedita Palermo cristiana, arcaica del III secolo d.C.

Adesso, dal 1945 Palermo è capitale amministrativa di una Sicilia che è regione italiana a statuto speciale: una nostra contemporaneità politica che, nel legare la città all’Occidente, (tramite l’Europa e Roma) riconferma gli esiti delle cronache passate tra Normanni, Svevi, Angiomi, Aragonesi, Spagnoli, Borboni e, appunto, Italiani. Cronache successive al mondo antico che hanno fatto di Palermo una grande risultante culturale subordinata ad un centro situato nel “continente Europa”; una risultante paradossale, perché nell’essere stata periferia ha avuto “capacità” espressive proprie nell’elaborare un’autonomia culturale.

Qui si esaurisce la sintesi della vita dei Palermitani negli ultimi 900 anni, da quando cioè Roberto il Guiscardo sbaragliò nel 1072 l’angolo delle mura islamiche della Kalsa (adesso inglobato dal manierista oratorio dei Bianchi), strappando Palermo dalla civiltà islamica e riportandola dentro le politiche della Cristianità occidentale.

Questa lotta per un’elaborazione culturale autoctona, che si è sviluppala nel tempo con alti e bassi, la si può capire “sentendo” il patrimonio artistico della città: altissima è stata l’elaborazione culturale durante i Normanni, debolissima è stata quella sviluppata attorno atto rivolta dei Vespri, scoppiata nel 1282: un’ipocrita episodio che nel dichiararsi autonomista contro l’imperialismo angioino, finì per (come scrisse lo storico napoletano Benedetto Croce) “segnare la morte della Sicilia e dell’Italia Meridionale”, subordinando definitivamente l’isola al consumismo nordico europeo.

La Palermo Normanna ci fa intuire innanzitutto cosa doveva essere la Palermo islamica esistita tra l’831 e il 1072, della quale non è rimasto nulla se non il ricordo di una mega metropoli meridionale con 300.000 abitanti distribuiti in quattro aree sociali tuttora individuabili.

Il Qasr, poi chiamato Cassaro, riuniva nell’antica penisola punica sia il centro direzionale Aglamita presso l’attuale Palazzo Reale, che il quartiere residenziale – commerciale munito di una strada lastricata e di una immensa moschea Gami nascente da una precedente chiesa bizantina che dal XII secolo sarà il sito della Cattedrale.

Attorno al Qasr, aldilà delle sponde dei due fiumi e riunite alla città in un unico borgo murato (Rabad) prendevano invece forma la cittadella direzionale della tribù Fatimita detta Al Halisah, adesso Kalsa; il quartiere papiretano degli schiavoni detto Harat as Sakalibah, poi Seralcadio (del cui toponimo oggi non rimangono tracce) e il quartiere nuovo Harat Al Gadidah, adesso Albergaria, che conteneva pure la zona ebraica dell’ Harat al Yahud, presso l’odierna piazza Meschita, da “Masgid”, Moschea.

Su questa base urbanistica araba, fino al 1194 i Normanni costruirono la loro Palermo cristianizzata.

Culturalmente fecero continuare il decorso arabo fino all’esaurimento, rinforzando pian piano i deboli caratteri latini rispetto anche agli orientali bizantini; un processo culturale di una civiltà quadrietnica (arabi, greci, latini e giudaici), unico per intensità in tutto il medioevo europeo, testimoniato dalla pietra conservata alla Zisa, ancora leggibile con diverse misure nelle fabbriche normanne palermitane.

Il Medioevo maturo portò a Palermo anche gli insediamenti stabili delle massime nazioni commerciali dell’occidente; a loro, i governi normanni offrirono una politica economica fatta di sgravi fiscali e possibilità insediative, dandogli così opportunità di incidere sulla crescita urbanistica di Palermo: Genovesi, Amalfitani, Pisani, Catalani e Veneziani si costruirono interi isolati con dentro case, chiese e logge, concentrandosi presso il porto vecchio all’incontro delle due foci, gettarono insomma le basi dell’attuale Vucciria completando bonifiche già avviate dai Saraceni, basi culturali che adesso sono intuibili spazialmente soltanto dentro i rifacimenti cinquecenteschi di piazza Garraffello (ex piano della Loggia) e delle chiese di Sant’Andrea degli Amalfitani, di San Nicolò lo Gurgo e di Sant’Eulalia dei Catalani.

Altro ingrediente culturale del medioevo palermitano è stato, nel primo Duecento, l’arrivo dei tre ordini mendicanti con i loro complessi conventuali di Sant’Agostino, di San Francesco e del Carmine (quest’ultimo, essendo forse già esistente nel 1117, rappresenta uno dei primi insediamenti conventuali carmelitani d’Europa); tre complessi installati urbanisticamente agli spigoli di una triangolazione equilatera perfetta, che scelse come baricentro geometrico il campanile di Santa Maria dell’Ammiraglio, il primo luogo del governo civico cittadino.

Il Medioevo palermitano si esaurisce con lo “Stupor mundi” dei colti, con il terribile “Anticristo” dei clericali o più semplicemente per i francescani spirituali con “il martellatore della Chiesa Cattolica”: Federico II di Hohenstaufen, uomo irregistrabile presso nessuna anagrafe a causa di una dinamica indole imperialista, crudele, immorale e coltissimo, fece di Palermo sede “formale” della sua corte sveva dal 1198 al 1250; preferì la Sicilia perché ne intuì la sua originale mediazione tra l’Europa e il Mediterraneo africano e asiatico; per Dante, il suo operato culturale siciliano fu fonte della lingua italiana; venne scomunicato da Roma anche perché, nell’appoggiare crociate cristiane, non rinunciò mai a scambiare cultura ed economia con i musulmani d’ogni ceppo. Di contro fece conoscere a Palermo una decadenza totale mai vista: la sua politica internazionale lo portò opportunisticamente a concentrarsi sulla costa ionica della Sicilia da dove passavano i traffici delle crociate.

Non si può capire l’imponente clericalizzazione di massa che da lì a poco la Chiesa scatenò sull’Isola attraverso gli Iberici, se non si riflette su ciò che i Normanni prima e Federico II dopo fecero della Sicilia: una regione inafferrabile dall’egemonia cattolico-occidentale.

Dal 1265, gli Angioini fecero di Palermo e della Sicilia un bacino da cui estorcere ricchezze. Con i Vespri venne fuori il sicilianismo di stampo latifondista dei baroni locali, i quali, nell’insidiare Angioini e Chiesa, accumularono potere creando forti signorie locali che a Palermo s’installarono con i palazzi Chiaramonte e Sclafani, strategicamente “contro” il Castellamare e il Palazzo Reale, sedi del governo angioino. Nacque, così, la cultura chiaramontana, che, con orgoglio nazionalista, mitizzò il passato normanno e combatté artisticamente l’esterofilo gusto gotico-catalano.

Il sentimento chiaramontano permise complesse elaborazioni plastiche dei blocchi di pietra, di matrice tessile e orafa come nel portico del Duomo del 1465, che rimase a Palermo anche dopo la decapitazione dell’ultimo dei Chiaramonte del 1392, finendo per incubare una certa passatista arretratezza culturale, leggibile ancora nel portico quattrocentesco di S. Maria la Nova.

Ma (scrisse lo storico Roberto Calandra) “…come in questa isola del Mediterraneo una luminosa giornata di dicembre unisce insieme la forza dei colori autunnali e la frizzante aria dell’inverno alla radiosa allegria primaverile … ” lavorò a Palermo dopo il 1490 Matteo Carnalivari da Noto.

Con le sue opere, i palazzi Abatellis e Ajutamicristo nonché (probabilmente) la chiesa di S. Maria della Catena, fece fruttare il precedente operato innovativo di due scultori continentali. Infatti, verso il 1470 Francesco Laurana da Zara e Domenico Gagini da Bissone, con le cappelle del Mastrantonio e degli Speciale, portarono a Palermo un concetto spaziale nuovo, per molti versi d’ascendenza toscana, legato al disegno prospettico brunelleschiano e allo “stiacciato” donatelliano (cioè dare all’occhio il senso di profondità spaziale tramite un’incisione prospettica della pietra risolta in pochi millimetri) il tutto passando dall’uso consueto della rugosa ed opaca pietra d’Aspra ad un “nuovo” materiale, liscio e lucente, il marmo rosa.

Queste testimonianze artistiche furono le risultanti di un consolidamento politico ed economico di una committenza straniera insediatasi in città fin dal medioevo e nel 400 aragonese ampliatasi con Lucchesi, Inglesi e Fiorentini, controllori totali del capitale cittadino in qualità di massimi commercianti e unici banchieri.

Da questa fase sociale Palermo ricevette una continuità generazionale di artisti durata dalla metà del XV alla fine del XVI sec: la famiglia Gagini, produttiva in tutta la provincia a cominciare da Domenico, portatore a Palermo della grande tradizione comasca (il più importante bacino di scalpellini che l’Europa ebbe per tutto il medioevo) e finire con i figli e pronipoti: Antonello approfondì il discorso prospettico del padre amplificandolo in composizioni sempre più articolate con racconti religiosi scomposti in scene, dei veri e propri “film di pietra”, dei quali il teatro marmoreo dell’abside di Santa Cita ne rappresenta una grande sintesi; e poi Vincenzo, Fazio e Giandomenico, “Gagini” sempre più “sicilianizzati”, riuscirono anche ad evitare con originalità il modello classico della composizione architettonica e ne è testimone la chiesa di Santa Maria dei Miracoli. Si tratta di un collage reinterpretativo di motivi architettonici passati e pluri-etnici (la spazialità centrica verticale arabo-normanna) che, con rarità, rinnovò la tradizione: plinto-colonna-pulvino-piedritto e arco pieno conducono ad un tamburo reggente una “cupola che non c’è”, assorbita da un cubetto con volta stellare. Ma questo di Fazio Gagini è solo un esempio sintomatico delle chiese fortilizie palermitane, cioè dell’applicazione all’architettura religiosa di quella cultura “militare” che dal tardo ‘400 cambiò Palermo

Di fatto dal 1453, con la caduta di Costantinopoli in mano turca, la Sicilia vivrà due secoli di incursioni piratesche continue, talmente devastanti da incidere sulla conformazione del territorio isolano.

Tant’è che fu proprio nel tardo 400 che le città costiere ebbero una forte crisi demografica, per cui fu necessario un sistema di torri a difesa dell’isola lungo il suo periplo. Si gettarono le basi culturali per una nuova “politica” del costruire la città, alimentata dall’imperialismo del viceregno avutosi dal 1513 al 1776, e che ebbe come massima realizzazione la quadripartizione della città nel 1600, nonché la definizione della struttura urbanistica e dell’ambiente sociale a noi pervenutoci. Per raccoglimento urbano degli eserciti attraversanti il territorio siciliano, a Palermo vennero rinforzati i limiti murari e creati gli sbocchi con il territorio extra-moenio. Così il Ferramolino progettò dal 1535 il rinforzo della cinta muraria, ancora di fattura normanna, e ad essa sommò 12 baluardi difensivi, dei quali il basitone dello Spasimo del 1536 rimane a noi come superstite.

Successivamente, l’antica strada del Cassaro venne a metà secolo rettificata nella sua informalità medievale e prolungata sia a monte, con lo stradone di Mezzomonreale del 1580 (odierno corso Calatafimi) sbucante dalla porta Nuova, e sia a mare congiungendosi tramite la porta Felice con la costiera strada Colonna realizzata nel 1577, l’attuale Foro Italico. Nel territorio infine venne lanciato il primo satellite urbano, il borgo di Santa Lucia, costruito dal 1569 a servizio del mega porto nuovo a sostituzione del vecchio porto medievale infra-moenio, che era stato interrato e partire dal Trecento e ridotto press’a poco all’attuale Cala già in epoca aragonese.

Insomma, per il controllo imperialista della città non bastava più fare singola architettura e necessitò l’urbanistica pesante. E come per tutte le strategie utilitaristiche che si rispettino, ci fu una filosofia giustificatrice, una rifondazione concettuale del “simbolo”, portata avanti dal patto sociale scaturito fra aristocrazia locale, viceregno spagnolo e clero inquisitore. Il controriformismo seppellì il concetto di simbolo medievale legato alla sintonia dell’uomo con i tre regni dell’universo; se, infatti, esso nasceva dai luoghi quello controriformista fu invece imposto ai luoghi e alla loro gente. E così dal 1600 la costruzione della via Maqueda suddivide la città in quattro mandamenti, gli affida un centro di funzione celebrativa pietrificato dai Quattro Canti: la croce di strade viene giustificata alle masse come segno evangelico, ma in concreto era dettata dall’incrocio con il Cassaro.

Il Seicento si apre quindi con una decadenza contenutistica, materializzata da artisti capaci, al contempo, sia di raffinatezza che di grottesca brutalità espressiva. Quest’ambiguità ebbe una registrazione dal vivo con l’opera di riassemblaggio dei pezzi di una villa fiorentina che il Camilliani fece per la Fontana di Piazza Pretoria nel 1580, antistante al nuovo ingresso del palazzo del Senato, costruito per propaganda dagli Aragonesi dando le spalle alla storia comunale di Palermo, cioè al campanile dell’Ammiraglio. Ed è sempre tra brutalismo architettonico a corrosione della pietra che si espresse l’architetto manierista palermitano Mariano Smiriglio (non a caso di formazione militare) dall’arsenale Nuovo al palazzo dei Pellegrini.

Da questo periodo scoccò il culto di Santa Rosalia: di fatti, da quando i governi spagnoli decisero di ammassare le classi povere sul sotterramento dei fiumi Kemona e Papireto, le condizioni igieniche furono costantemente minacciate da ondate di peste e malaria, tant’è che già nel 1575 il medico Ingrassia fu incaricato di fare un “programma urbanistico di risanamento”. Il viceregno preferì risolvere il problema con le ossa taumaturghe di una discendente di Carlo Magno trovate su monte Pellegrino, tale Rosalia Sinisbaldi per l’appunto. Da qui il primo festino della Santuzza risalente al luglio 1626 e la cancellazione dei due originari etimi fluviali palermitani.

Contribuirono a determinare l’aspetto quasi definitivo della città gli insediamenti degli ordini inquisitori, e più di tutti gesuiti e domenicani. Costruirono mega episodi architettonici (degli isolati inferi), ridisegnarono lo sky-line di Palermo inserendo le loro “insegne pubblicitarie” fatte di pietra e ceramica, ovvero campanili e cupole, permisero ad un intera generazione di architetti di progettare con alta intensità; si venne a creare così la possibilità di superare il manierismo culturale ed entrare nel cosiddetto “barocco”, o meglio nel Seicento maturo. Una costellazione architettonica si estese su tutta la città, della quale possono essere consigliate come sintesi: la chiesa di San Francesco Saverio di Angelo Italia, il San Salvatore di Paolo Amato, le cupole del Carmine e dei Gesuiti di A. Italia, la chiesa della Pietà di Giacomo Amato, le decorazioni policrome di S.Maria Valverde di Andrea Palma e P. Amato.

E fu da questo rigoglio di cantieri che Giacomo Serpotta poté inaugurare una nuova generazione di decoratori, la cui produzione fu inedita per il panorama artistico non soltanto italiano. Negli oratori di San Lorenzo, del Rosario e di Santa Cita, la decorazione fa lo spazio architettonico: fu il superamento della lezione gaginiana; nei suoi “teatrini” plastici, il Serpotta non addossò mai le figure, mucchi di racconto e vuoti lisci mozzafiato interagiscono dialetticamente; la lingua pur rimanendo sempre raffinata si fece anche più popolare negli accenti, così le espressioni smisero per il momento di essere elitarie. D’altronde, il decorativismo nel palermitano, sin dai 400, era portato avanti da decoratori di estrazione popolare come i Ferrerò ed i Li Volsi.

Con il viceregno spagnolo si consolidò la gerarchica sociale palermitana: il Viceré, con sede a Palermo, fu calamita dei baroni latifondisti di tutta la Sicilia, assumendo così i suoi cortigiani; fu anche in seguito a questo che una sola residenza non bastò più ed altre dovettero costruirsene nella limitrofa campagna.

Si svilupparono i sistemi di villeggiatura lungo le direttrici di Piana dei Colli e di Mezzomonreale, che daranno la matrice ai quartieri nostri contemporanei: Partanna, Tommaso Natale, San Lorenzo, Resuttana, Pietratagliata, Pagliarelli, Molara e Villagrazia; matrici di nuclei urbani furono anche le tonnare dell’Arenella, di Vergine Maria e di Modello nonché i conventi di S.Maria di Gesù e dell’Uditore.

In città vecchia il Settecento completò gli insediamenti controriformisti; Tommaso Maria Napoli e Giovanni Biagio amico ne furono gli architetti guida, a cominciare dalla costruzione della nuova piazza San Domenico, avviata dal 1724 e completata nel 1726 con la colonna dell’Immacolata.

Con la fine del viceregno e l’arrivo della corte borbonica (1777), Palermo poté respirare l’aria continentale dell’illuminismo borghese, almeno durante il governo del Caracciolo, portatore di storiche soppressioni: il tribunale dell’Inquisizione nel 1782, i monasteri e del loro monopolio di panificazione, la spesa pubblica nelle voci riguardanti i baccanali con ridimensionamento del festino e dei cortei aristocratici e paramilitari.

Per la prima volta la società palermitana fu attaccata nella sua secolare consociazione aristocratica-militare-clericale, ne derivò una propulsione scientifica non più vista a Palermo dai tempi arabo-normanni, della quale ancora oggi ci testimonia l’Orto Botanico (il più grande d’Europa costruito nel 1789-93) con l’annesso ginnasio botanico dell’architetto francese Dufourny. Di quest’epoca illuministica la villa Giulia ne rappresenta un’altra testimonianza, fu un segno nuovo per la riappropriazione sociale di un luogo dove ormai l’Inquisizione tagliava solo teste.

Di ben altro significato fu il Parco della Favorita, che voluto da Ferdinando IV di Borbone dal 1799, confermava con un insediamento regale la valenza aristocratica del territorio posto tra piana dei Colli e monte Pellegrino, oltre che creare un luogo di sperimentazioni per il miglioramento delle tecniche agricole. La sua entrata era costituita dal sistema della Palazzina Cinese, costruita da Giuseppe Venanzio Marvuglia. E’ anche a lui che si deve il traghettamento culturale dall’epoca di stampo controriformista a quella più illuministico-borghese, lo fece con i revivals cinesi, con l’asciuttezza decorativa delle partiture di palazzo Riso, con l’originale soluzione urbanistica dell’oratorio di san Filippo Neri a piazza dell’Olivella. Ma Marvuglia fece pure conoscere al duomo palermitano la cancellazione della sua antica matrice medievale, continuando (pur frenandolo) l’intervento non organico del Fuga iniziato nel 1767: un attestato di confusione sui significati cristiani tramandati nel tempo, che fece addirittura costruire una cupola pesantemente estranea all’originalità del tempio normanno.

Processi anticlericali, ricambi di potere, industria del vino e delle manifatture fecero consolidare una nuova classe borghese. Essa giostrò per tutto l’Ottocento gli eventi urbanistici e culturali palermitani, sia nella buona che nella cattiva sorte, una classe borghese dalle due anime opposte: da un lato, un’ispirazione haussmaniana che urbanisticamente nascondeva la miseria sociale dietro palazzi lussuosi, sventrando e ghettizzando; e dall’altra, un serio antiprovincialismo capitanato dai Florio, connesso artisticamente alle maestranze più popolari.

Fu così che con l’Ottocento, Palermo, nel suo espandersi fuori le mura, perse la compenetrazione urbana tra le classi sociali: a sud la concentrazione abitativa popolare, e a nord la borghesia, posta ai margini del prolungamento di via Maqueda, cioè di quella via Libertà fatta costruire dal tentativo autonomista del ’48 palermitano, un episodio d’ispirazione mitteleuropea, che fallì il suo operato nel giro di un anno con l’immediata restaurazione borbonica.

Le uniche tematiche culturali di sviluppo furono sviluppate dalle sensibilità degli artisti Giovan Battista Filippo Basile, Giuseppe Damiani Almeyda e Francesco Lo Jacono.

Guardando il loro operato artistico, si capisce come lo spessore culturale dell’arte e il progresso economico capitalistico non sempre sono direttamente proporzionali: difatto, il pensiero architettonico della Palermo paleoindustriale fu più moderno di quello di paesi già industrializzati come l’Inghilterra. Fu il teatro ad offrire il tema su cui esprimere questa modernità palermitana.

Con l’arrivo degli italiani dal 1860, il melodramma nazionale impone modelli spaziali all’altezza della cerimoniosità; ci vollero allora nuovi episodi che prescindessero dai teatri già esistenti (i teatri Santa Cecilia, Garibaldi e Umberto I) e che da soli facessero l’isolato urbano.

Di questa cultura politica ottocentesca furono figli i teatri Politeama e Massimo, costruiti alla fine dell’800. L’originalità artistica di Basile e Almeyda fu appunto quella di guardare all’Europa non come modello a cui adeguare la Sicilia, bensì come “luogo comune” tra più nazioni, dove comunicare i singoli operati artistici nutriti dalle diversità uniche dei luoghi.

Importarono criticamente l’atmosfera tecnologica europea, ma a differenza dei “molti” non caddero nel tecnologismo ma misero sempre a superiorità la sensibilità umana, rispetto alle tecniche e a gli stili accademici.

Sempre tra l’800 e il ‘900, Palermo si aprì al territorio a macchia d’olio con lottizzazioni puntiformi.

Mondello fu l’espressione vacanziera della borghesia ottocentesca, un luogo nato dalla bonifica di una palude (iniziata nel 1865 e conclusa nel 1910) presso un antico borgo marinaro: su una piana estesa tra i monti Gallo e Pellegrino, costituì un polo d’espansione urbana a settentrione dell’antica città, formato da lottizzazioni a ville susseguitesi dall’800 ad oggi: per i movimenti di traffico dalla stazione ferroviaria alla nuova città borghese fu costruita la via Roma, un taglio a corpo vivo sul tessuto popolare di Palermo, dai primi del ‘900 al 1922.

Sotto il segno della ricerca artistica autoctona, operò Ernesto Basile nel passaggio di secolo, l’unico assimilatore della lezione del padre, l’approfondì nei suoi significati originali, costruendo a Palermo opere dialettiche al gusto corrente epocale, l’Art Nouveau e il Liberty, considerati dal Basile come “livellatori di differenze territoriali”. Le tradizioni artigianali popolari del ferro battuto, della pietra tagliata e del legno curvato confluirono nella progettazione di spazialità, integrando con il veicolo espressivo della linea dinamica in tensione l’utensile all’arredamento e il tutto all’architettura, Villa Florio e Villa Igiea di questo sentimento ne sono l’espressione. Forse il Basile fu l’apice di una continuità generazionale di artisti siciliani che (senza sentire il bisogno di importare la cosidetta “Aria del continente”) riuscirono al contrario ad essere maieuti della loro terra.

Ma carissimo fu il prezzo pagato da Palermo all’ultima guerra: tutt’ora il suo centro antico è l’unico in Europa a portare i segni dei bombardamenti alleati del 1943. La Conca d’Oro diventò col dopoguerra il bacino di residenza degli emigranti dalla provincia, una nuova “massa” da impiegare per la gestione burocratica della Città.

Il “sacco di Palermo”, avvenuto negli anni Sessanta – Settanta, oltre ad essere stato l’assassino del territorio rappresenta la constatazione dell’impossibilità d’intervento da parte delle intelligenze (artistiche e non) sulla costruzione dello “spazio” a Palermo.

La registrazione di questa contemporaneità non sta in nessuna opera d’arte palermitana, ma nell’Inchiesta a Palermo che Danilo Dolci scrisse nel 1957.

E’ qui che la crisi “comunicativa” dei Palermitani coinvolge in una sola sequenza sventramenti fascisti – bombardamenti – affari politico/mafiosi incentrati sulla speculazione edilizia.

(*) di Rossella Carlino e Alessandro Di Bennardo